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ERNESTO UGO GRAMAZIO

JEAN PIERRE JOUVET

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CAMILLO SEMENZATO

VITTORIO SGARBI

EMILIO VEDOVA

MARCELLO VENTUROLI

ANDRE' VERDET

Ho negli occhi la luce nera di una delle opere più recenti e prestigiose di Giorgio Celiberti: la grande lavagna del 1989 – scritta con il bianco e col rosso, percorsa dai grigi tremanti di una notte che non vuole farsi intera. Parole, ridotte a fiati; numeri, spogli di senso; piccole croci, piccoli cuori; vaghe, frananti architetture di segni. Sul nero luminoso che ne sostiene l’immacolata ed insieme calda epifania, quei segni dispersi di un vocabolario perduto narrano non altro che il tempo che li ha visti nascere: sospinti, giorno dopo giorno, da una testarda volontà di restare in vita, di parlare e sognare, mentre ogni altra cosa, attorno, si fa gelido silenzio o ressa confusa.
Mura antiche di prigionieri: come quelle che, un tempo ormai lontano, Celiberti ha incontrato e guardato con dolore; ma di più e più durevolmente per lui, muri della memoria: luoghi dove calano, si depositano, restano, dense di un’eco profonda e risonante, le cose che appartennero alla vita. Che parvero, allora, drammatiche o felici, senza remissione; che adesso prendono, le une e le altre, il sapore ambiguo, dolce ed agro assieme, della  malinconia.
E’ un sentimento, questo (o qualcosa di più: essendo l’unico palpito, insieme, del cuore e della mente), che mi pare scorra sotterraneo nell’opera del pittore friulano, e che tutta la governi. Ma, prima di farne un cenno ulteriore, qualcos’altro occorre dire di Celiberti. E’ dunque ben chiao, da un canto, che la sua pittura cresce, da due decenni ed oltre a questa parte, nell’alveo capiente, sontuoso e fecondo d’esiti fra essi anche assai distanti, della cultura del segno. Klee e Wols, fino a Dubuffet, i suoi padri fondatori; Tàpies, forse, la sponda più diretta da cui Celiberti ha preso il primissimo abbrivio.
Ma è evidente, d’altro lato, come codesti riferimenti – pur necessari ad intendere le scaturigini di una ricerca che non a caso ebbe le sue mosse, nel corso degli anni Cinquanta, proprio a contatto con il dipanarsi delle esperienze artistiche che sbocciarono allora a Parigi e in altre capitali europee a quella collegate – si facciano infine inessenziali per definire la natura di un lavoro che presto si qualifica come fondamentalmente ripiegato su se stesso, sul proprio fare, sulle esigenti ragioni di uno ‘stile’ – e cresca autonome, pensose ragioni morali.
Ciò mi par vero – questa separatezza, dico, della pittura di Celiberti; questa sua, quasi, gelosa segretezza d’intenti – fino al punto che è lecito sottolinearne adesso il carattere precipuamente lirico: il suo modo di dirsi, e di offrirsi, come frammento, come attimo di rara felicità, come barlume di bellezza, piuttosto che come organico strumento di conoscenza.
Quanto, allora, Celiberti ha derivato e, fors’anche inconsapevolmente, conservato della cultura incontrata in Europa (e penso, ad esempio, a quella nozione fenomenologica del tempo come ritmo, ripetizione, scansione successiva di eventi e di pause che sembra tuttora lasciar traccia sensibile nelle immagini di Celiberti; o di quell’altro aspetto del pensiero heideggeriano che mette in valore ogni portato della primitività) resiste oggi nella sua pittura – e identicamente nei suoi rilievi – come tesoro quasi nascosto: non esibito, non orgogliosamente dichiarato, ma subalterno e come sottomesso a quel canto live e sommesso levato ad un tempo trascorso che ha lasciato di sé le povere vestigia dei segni di cui gli affreschi, le carte, le terrecotte di Celiberti s’incantano.
Un tempo che non è stato, di necessità, né aspro né felice, né araldico né quotidiano: non dal suo consistere, allora, nell’un modo o nell’altro discende, oggi, quel panico sentimento di malinconia che avvolge le immagini di Celiberti; è, invece, lo sguardo lungo e trepido del pittore sulle sue cose, sulle sue poche occasioni figurative e sui suoi molti ricordi, quel suo estrarli da una sedimentata memoria, quel suo farli presenti, ora, da un’imprecisabile lontananza, a restituirci oggi, quelle cose, così magiche, affabulanti, consolatorie.
E’ andato per l’Europa: e ne ha ricondotto “cuori rossi e bianchi, cancellature, elenchi, farfalle, piccole foto, colonne di numeri…”. Poi ha guardato il suo Friuli, e vi ha scoperto la crescita osmotica di “natura e pietra, di fiumi e di storia”. E infine ha visto che l’una e l’altro stringevano in mano un identico tesoro: quello della vita – dell’uomo, della natura – cui lo scorrere del tempo toglie ferocia e iattanza, e dona in cambio verità. E’ per questo che, ha detto, “a me piacciono, da un gran pezzo in qua, le vecchie cose che affiorano, le scritte sui muri, i muri stessi nelle loro impensabili stratificazioni di tempi, le immagini graffite e rilevate, la presenza dell’uomo, del suo respiro”.
“Ogni segno, ha poi aggiunto, mi diventa antico sotto il pennello”; un pennello – ed è questa l’ultima notazione che oggi avanzo sulla pittura di Celiberti – che, anch’esso, sa egualmente stringere in mano i talenti che gli derivano dall’aver intelligentemente esperito un tragitto sovranazionale di forma, e il frutto che gli viene dall’attingere alle radici più autentiche della sua terra: un pennello che sa, dunque, sposare il segno, e il suo valore semantico e simbolico, con il garbo, la grazia, le seduzioni del tono: con quel colore acquoreo, lieve, debordante dai confini del ‘disegno’ che Celiberti assume dalla grande tradizione veneta, e che volge ad una sua personale inflessione, di particolarissima e squisita tenerezza.

Fabrizio D'Amico

(in, Celiberti, catalogo della mostra, Bologna, Galleria Forni, marzo 1990)

 


Giorgio Celiberti, la felicità dell’attimo

Giorgio Celiberti è rimasto friulano (è nato ad Udine nel 1929), è quasi ostinatamente legato ai luoghi e ai tempi della sua terra. Lì ha scelto di vivere e di lavorare, in chiuso isolamento, dalla fine degli anni Cinquanta, per porre termine a un’età giovanile densa di viaggi, di curiosità, di incontri. Per questo suo stare lontano, da un certo punto in avanti egli ha scontato, soprattutto negli anni Settanta e all’inizio dello scorso decennio, una certa marginalità nel dibattito artistico italiano, mentre continuava a tenersi ben viva l’attenzione che al suo lavoro destinavano altre aree europee, soprattutto di lingua francese. Oggi, e anzi già da alcuni anni, si recupera anche da noi il tempo perduto: e ne è un segno preciso, la ampia mostra (curata da Marco Goldin) che adesso gli viene dedicata a Villa Contarini di Piazzola sul Brenta.
Angillotto Modotto: in pochi, ora, ricordando la sua figura singolare, e la vocazione ad interpretare con vigore, già negli anni Venti, quella volontà dell’avanguardia friulana a staccarsi dai modelli del Novecento in una linea di continuità ideale con Ca’ Pesaro, da un canto, e la grande tradizione della pittura veneta dall’altro. Di lì presero le mosse, fra gli altri, i tre fratelli Basaldella – Dino, Mirko e Afro. Di lì si avviò anche Celiberti, che di Modotto era nipote. Così che i suoi primi passi s’avviarono nell’alveo delle ricerche più avanzate che a Venezia perseguiva l’ultima generazione: quella di Vedova, di cui il giovane friulano prese a frequentare lo studio, e di Tancredi, con il quale Celiberti spartì per un tempo la camera in una pensione, mentre frequentava il Liceo Artistico veneziano. Ma la decisiva rivelazione, quella che avrebbe determinato durevolmente la linea del lavoro, venne infine a Parigi, ai primi anni Cinquanta, quando Celiberti s’incontra con la lunga e lì straordinariamente feconda vicenda della cultura segnica, che scorreva quasi ininterrotta da Wols a Fautrier a Dubuffet e che nutriva allora gli esiti ancora alti dell’informale francese. “Le vecchie cose che affiorano, le scritte sui muri, i muri stessi nelle loro impensabili stratificazioni di tempi, le immagini graffite, la presenza dell’uomo…”: tutto questo, avrebbe poi detto, prese a trattenere il suo sguardo, a cingere di lacci l’animo: secondo un modo che, da subito, si qualificò come scarsamente interessato a sottolineature esclusivamente linguistiche; e piuttosto, invece, propenso ad abbreviazioni e crampi evocativi, a declinazioni di sentimento.
Non tanto, dunque, le potenzialità conoscitive implicate in una ricerca che scavi, attraverso l’automatismo del segno, nelle ombre dell’inconscio, quanto la meraviglia, l’incanto, lo stupore, alla malinconia, lo spavento che l’apparizione improvvisa di un concerto di segni non immediatamente referenziali determina nell’animo: questo è quanto, mi pare, Celiberti soprattutto cercò allora, ed è quanto ancor oggi sostiene la sua pittura. Parole, ridotte a fiato; numeri, spogli d’ogni conosciuta sintassi; piccole croci, piccoli cuori; intrighi, percorsi, e vaghe, sempre frananti architetture di segni: tratti da un passato di cui non si conserva ormai una precisa memoria, ma che pur alita ancora sull’oggi – è quanto fa, adesso, questa pittura. Che – pur sempre più spesso felicemente distesa, in tempi recenti, nella grande superficie – conserva forse soprattutto il fascino del frammento: dell’attimo raro e geloso in cui, cessata l’ansia del mistero, ha luogo la bellezza.
Un attimo di felicità segreta, e finalmente lontana dall’affanno della ricerca, che Celiberti tocca anche grazie alla istintiva sapienza del suo colore – luminosa e calda apparizione di rosa, di bianco, di azzurro, sul manto unito del nero, del grigio in gamma infinita.

Fabrizio D'Amico

(in “La Repubblica”, 20 ottobre 1992)

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